Ricordi di naja

(aggiornamento novembre 2009)

 

 

A distanza di tanti anni è difficile ricordare con precisione gli episodi relativi a quel periodo, che per noi è stato di quindici mesi e che, in gergo, viene solitamente denominato “naja”, mi scuso, quindi, con i co-protagonisti, se qualche particolare sarà differente da come lo ricordano; lo considerino una “licenza poetica”.

 

Ero ancora piccolissimo quando mi resi conto di essere, quasi del tutto, sordo all'orecchio destro. La causa scatenante è stata un'otite cronica. L'orecchio sinistro si è abituato a sentire per due. Niente di grave: quando dormo sull'orecchio buono non mi svegliano neanche le cannonate.

 

Alla prima visita militare cercai di sfruttare questo difetto per farmi riformare, ma l'otorino, forse per colpa mia che avevo cercato di "bluffare" esagerando, pensò che stessi mentendo e non rilevò alcuna sordità. Tra l'altro, il giorno prima della visita, su consiglio di amici "molto esperti" fumai due pacchetti di sigarette e trangugiai un litro di caffè nero; era il sistema "sicuro" per farmi scartare per problemi cardiaci. Il cardiologo, contrariamente alle mie aspettative, mi assicurò che il cuore batteva come un orologio.

 

Mio nonno Edoardo, che era un bravissimo medico, mi aveva detto che se qualcuno, che non mi conosceva, mi avesse auscultato il cuore, si sarebbe spaventato, ma mi aveva rassicurato: -Non preoccuparti, non hai niente! E' solo un'aritmia respiratoria, niente di grave!- Puntualmente, alla visita di selezione il medico-militare dopo avermi auscultato, mi fece sdraiare sul lettino (cosa che non aveva fatto fare a nessun'altro) e chiamò l'altro medico che confermò la sua diagnosi: -Avevo problemi cardiaci! - Mi inviarono all'ospedale militare per una visita specialistica. Il cardiologo mi chiese da quanto tempo avevo questi problemi. Io risposi: - Quali problemi?- Insomma, anche lui confermò la diagnosi di mio nonno: -Lei non ha niente, sta benissimo!-

 

Una volta dichiarato abile-arruolato, avendo fatto, successivamente, domanda per partecipare al corso AUC, cercai di evitare che scoprissero il mio problema d'udito. Il medico mi chiese di ripetere quello che diceva sottovoce; prima mi tappò l'orecchio destro e ripetei quello che avevo sentito col sinistro (quello buono), poi mi tappò il sinistro (ma non abbastanza) e ripetei le parole che avevo sentito, sempre col sinistro. Mi classificarono non solo "fisico di 1a categoria" ma anche "udito di 1a categoria" (incredibile!).

 

Nell' autunno del 1965 venni convocato a Roma per le prove teoriche della selezione AUC. La caserma dove si svolgevano  gli esami  era  in Via dell'Amba Aradam traversa Villa Fonseca. Ero insieme a mio fratello Gianfranco e ad alcuni coetanei. I test erano abbastanza facili. L'ufficiale col quale sostenni il  colloquio  alla  fine  delle  prove  scritte  mi  disse  che,  quel giorno, ero stato il migliore nelle parti topografica, geometrica e aritmetica (materie che ho sempre amato) e aggiunse che, pur avendo chiesto di essere assegnato alla Fanteria, con molta probabilità sarei stato assegnato all'Artiglieria Semovente da Campagna.

 

Avevo già comperato il biglietto della partita Cagliari-Juventus, quando mi arrivò la cartolina che m’imponeva di partire per Bracciano. Regalai, con la morte nel cuore, il biglietto della partita, mi feci praticare un taglio “estivo” ai capelli, dal mio parrucchiere di fiducia e partii (in nave) alla volta di Civitavecchia (era sabato 16 aprile 1966). Mio fratello Gianfranco (due anni più di me) partì insieme a me, anche lui era del 43° AUC, ma la sua destinazione era Ascoli Piceno. Sulla nave trovammo diversi compagni di sventura, tra gli altri: Enrico Milesi, destinato a Civitavecchia, Antonello Pisu, destinato a Caserta, e Marco Zaccheddu, anche lui, come me, destinato a Bracciano. Proposi a Marco, visto che avremmo dovuto presentarci in caserma entro la mezzanotte, una volta sbarcati a Civitavecchia, di non andare la mattina verso la nostra destinazione, ma di andare a Roma, passare la domenica nella capitale, con gli altri, e solo a tarda sera di dirigerci verso Bracciano; non ne volle sapere: - Andiamo a Bracciano – disse – e facciamo conoscenza col posto; poi, di sera, ci presenteremo alla caserma “Romano”- Accettai e ancora oggi me ne pento; al nostro arrivo alla stazione trovammo ad aspettarci il comitato di ricevimento: il Sergente D’Ubaldo con due allievi del 42° AUC. C’imbarcarono su un camion dove c’era, in attesa, un signore che a me parve di una certa età. In quell’occasione feci una grossa “gaffe”: -Renitente? – chiesi; era Emilio Giuberchio, un collega, che (come me) dimostrava qualche anno in più. Fummo portati alla caserma e passammo la nostra prima giornata rinchiusi. A mensa ci accolsero simpaticamente gli Allievi del 42° (i nostri "nonni") col coro: -Lampadine, colorate, colorate di luce nera...-Nel pomeriggio ascoltai "tutto il calcio minuto per minuto". Il Cagliari battè la Juventus per due a zero; e io non c'ero.

        

         Il lunedì ci portarono dal barbiere per il taglio dei capelli; io provai a far notare al Sergente Striano che i miei erano già cortissimi, ma non volle intendere ragioni, nel foglietto ciclostilato che ci avevano consegnato c’erano le varie incombenze da svolgere e, tra l’altro, era prevista questa formalità; capii che anche se fossi stato completamente calvo avrei dovuto presentarmi dal parrucchiere perché, solo dopo il suo intervento (anche se negativo), si doveva barrare l’apposita casella nel foglietto ciclostilato. Ci portarono alla caserma Montefinale, che si trova dall’altra parte della strada rispetto alla “Romano”. Il capo-parrucchiere era un omone robusto, con due baffi enormi (al confronto Stalin era un dilettante); il suo soprannome, infatti, era “Baffo”. Non appena mi vide, disse (con accento romanesco): – Questo va già bene così!- Io guardai, con malcelata soddisfazione, Striano che fece “spallucce”. Poi il barbiere vide Roberto Bozolo che indossava due stivaletti a tacco alto con borchie, Jeans attillati, giubbotto in pelle, occhiali scuri a specchio ed aveva un enorme ciuffo alla Elvis Presley prima maniera. ”Baffo” (leccandosi i medesimi) disse: - Er Bobby Solo lo faccio io! Viè qua!- Lo fece sedere e, con la macchinetta, partì dalla nuca ed arrivò alla fronte, lasciandogli un centimetro scarso di capelli. Alla vista di quello scempio a Bozolo spuntarono due lucciconi. Baffo si intenerì e gli disse: - E nun piàgne… ch’è robba che ricresce!-

        

I primi giorni feci conoscenza con i colleghi che stavano nel mio stesso box: oltre che Marco Zaccheddu ed Emilio Giuberchio, conobbi Mario Cappello, un simpatico triestino col quale dividevo il letto a castello (lui dormiva al primo piano ed io al pian terreno). Fu proprio lui, laureato in chimica, che individuò il bromuro contenuto nel vino che ci davano a mensa. Nello stesso box (il primo) c'erano: Giuseppe Aresca, Enzio Camurati, Michele Cipriani, Angelo Codutti, Franchino Coppo, Pino Federici, Marcello Guerrieri, Bruno Maiello, Nino Oreni, Angelo Pe, Franco Prisco, Ricciardo Ricci, Orazio Russo, Luciano Salce, Angelo Sinisi e Lele Tarantino, (spero di non dimenticare nessuno).

        

Avevo qualche chilo di troppo e quando mi consegnarono la divisa, la provai ed avvertii il Maresciallo Palumbo che i pantaloni erano stretti in vita. -Non si preoccupi - mi assicurò - fra una settimana le saranno larghi!- Aveva ragione. Ci consegnarono anche la "biancheria tattica", tra l'altro due paia di mutandoni boxer che usai solo per fare fotografie divertenti. Il cappotto era lunghissimo, a stento si vedevano le suole delle scarpe. Me ne lamentai ma mi fu proibito di farlo accorciare.

        

L'esperienza di molti campeggi mi aveva consentito di perfezionare le mie attitudini al "fai da te"; per cui, quando mi assegnarono una branda che aveva un telo assurdamente floscio, dopo una notte quasi insonne, mi organizzai e con filo di ferro, recuperato chissà dove, lo tesi quasi come la pelle di un tamburo. Ero convinto di aver fatto un ottimo lavoro ma il Sergente Striano, nel vedere la mia opera, non fu della stessa opinione: -Stia punito!- mi disse. Avevo raggiunto un record: il mio nome fu il primo ad inaugurare la tabella dei puniti! Fui costretto a smontare tutto e ad abituarmi a dormire sul telo floscio.

 

I primi giorni ci impegnarono con l’addestramento formale e ci insegnarono la “presentazione”; il Sergente D’Ubaldo mi fece urlare con quanto fiato avevo in gola: -Allievo Ufficiale Pirodda Alberto, seconda batteria, seconda sezione.- Io, a 24 anni, avevo un vocione tonante e sicuramente mi sentivano fino a Manziana (un Comune vicino a Bracciano) ma il Sergente, imperterrito asseriva: -Non ho inteso niente! Più forte!- Così dovetti ripetere più volte la presentazione. Dopo tre o quattro tentativi, secondo lui, falliti mi mandò ad una trentina di metri per ripetere quella filastrocca. Quel provvedimento non lo aveva preso per nessun'altro e visto che non mi sembrava di aver fallito la prova, anzi, al contrario, ero sicuro di essere stato di gran lunga migliore degli altri, mi sentii preso in giro e reagii inserendo nella presentazione una sfilza di parolacce in cagliaritano: - Allievo Ufficiale Benighirigòddu, Seconda Baccagài,  Seconda Seddori!- (1) –Prima il cognome e poi il nome!- Mi urlò il Sergente, ed io: -Allievo Ufficiale  Ti gòddu beni, (2) Seconda Baccagài, Seconda Seddori!- Nessuno capì che cosa stessi dicendo tranne Làconi e Zaccheddu, i quali, piegati in due dalle risate, promisero agli altri che avrebbero spiegato il significato di quelle strane parole più tardi. In seguito parecchi colleghi si rivolsero a me chiamandomi: -Benighirigoddu!- Vi risparmio la mia risposta (che suggeriva l’incesto); moltissimi mi chiesero di insegnare loro le parolacce in sardo.

 

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(1)si scrive: beni chi ti coddu (vieni che ti fotto) bai a cagai (vai a cagare) e Seddori è il nome in sardo di Sanluri un comune in provincia di Cagliari.

(2) ti coddu beni (ti fotto bene).

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            Eravamo a Bracciano da pochi giorni quando ci fu un'ispezione del Capo di Stato Maggiore della Difesa. Siccome non eravamo ancora ben addestrati ci fecero indossare (per la prima volta) le tute mimetiche e ci portarono nelle campagne intorno a Bracciano per “imboscarci” ed evitare il nostro incontro con il generale. Il risultato di quell' ispezione fu, purtroppo, evidente molto presto: la qualità dei pasti peggiorò drasticamente. Qualcuno ci spiegò che il generale, avendo constatato che il menù della Caserma Romano e quello della Montefinale erano diversi (alla Romano c'erano circa 500 allievi e alla Montefinale circa 2000 artiglieri), ordinò che anche gli artiglieri avessero lo stesso menù degli allievi, visto che si trattava della stessa Scuola di Artiglieria. I nostri Superiori trovarono più facile adottare per noi lo stesso menù degli artiglieri, invece che il contrario; insomma l'ispezione del Capo di Stato Maggiore ci obbligò a mangiare di merda. Il pranzo, quasi sempre, era così composto: pasta asciutta (tipo rigatoni, ma senza righe) con pochissimo sugo, carne, non si sa bene se bollita, arrosto, in umido o che ca..., una porzione di giardiniera, una mela e un panino, il tutto bagnato da un “ottimo” vinello saturo di bromuro. A proposito della carne, circolava la voce che fosse carne surgelata, fornita dall'America; pare che si trattasse dei bisonti uccisi da Bufalo Bill. Per condire meglio la pasta molti di noi, me compreso, si compravano allo spaccio dei sughi in barattolo. Io riuscivo a mandar giù la carne, mentre altri non ci riuscivano e preferivano la giardiniera, che a me faceva schifo e questa situazione ci spinse a fare degli “scambi in natura”: io ti do la giardiniera, tu mi dai la carne. Per la cena ci propinavano la pasta avanzata a pranzo, sotto forma di minestra e la stessa carne. A volte c'erano uova sode; in quelle occasioni facevo la fila più volte perché le uova sode mi piacevano.

 

La prima domenica ci portarono alla Messa. Era prevista per le 11 ma ci fecero schierare, in un enorme piazzale della caserma Montefinale, predisposto per la Funzione Religiosa, alle 9. Poi scoprimmo che il Comandante di Batteria, il Capitano Miceli, aveva dato ordine  di  portarci almeno un’ora prima (quindi alle 10) per poterci controllare ed addestrare bene. Il Sottocomandante, Tenente Ruocco, pensò bene di fare lo stesso lavoro un’ora prima, in modo tale da farci trovare già a posto dal punto di vista formale: divise in ordine, scarpe lucide, basco ben messo, allineamento perfetto, ecc. per fare bella figura col Capitano. Fummo quindi costretti a stare sotto il sole per ben due ore, prima che iniziasse la Messa. Quando finalmente arrivò il Cappellano Militare constatammo che aveva le spalline da Generale di Corpo D’Armata. Insomma anche il Prete era un militare ed era il più alto in grado fra i Cappellani dell’Esercito Italiano. Nel corso della Messa ci fecero recitare la “Preghiera dell’Artigliere” che, tra l’altro, diceva: “rendici forti come l’acciaio dei nostri cannoni”. Trovai molto strano che si facesse riferimento, nel corso di una preghiera, ai cannoni, che hanno una funzione che qualunque religione dovrebbe aborrire. Tutte queste situazioni m’indussero a prendere una decisione irrevocabile: non sarei più andato a Messa; avevo già dei problemi di fede e assistere a Messe come quella, li avrebbe sicuramente aggravati.

 

Una delle cose più seccanti della naja era il “cubo”. Noi, che stavamo nella seconda  camerata e dormivamo nei letti a castello, dovevamo fare un tipo di cubo diverso da quello dei nostri colleghi della prima camerata che avevano i letti con la rete metallica. Il nostro cubo veniva fatto rivoltando il materasso, che doveva restare visibile, e sopra il quale si dovevano mettere, in evidenza, le due lenzuola, la coperta piccola e la coperta grande ben piegate e sormontate dal copriletto che andava incassato sotto il materasso.  Io sono sempre stato un nottambulo: tardavo ad andare a dormire e soffrivo nel dovermi svegliare presto; per cui la mattina cercavo di sfruttare ogni secondo per restare un po' di più a letto. Ero sempre uno degli ultimi ad alzarmi ed avevo risolto il problema del cubo costruendomene uno "semiautomatico". Utilizzando l'asciugatoio (un mezzo lenzuolo che ci era stato dato per asciugarci dopo la doccia) avevo brevettato un finto cubo cucendolo assieme alla coperta piccola: li avevo piegati dandogli i diversi  spessori con pezzi di corda, di cartone e di legno in modo tale da imitare perfettamente gli elementi del cubo. La mattina mi bastava rivoltare il materasso (lasciando all'interno lenzuola e coperta) appoggiarvi sopra il finto cubo, che tenevo nascosto sotto il materasso, per poi incassargli sopra il copriletto; ci impiegavo un minuto scarso. Il mio trucco non fu mai scoperto.

 

            Un giorno ci portarono alla "Montefinale" per la vaccinazione. Ci fecero entrare a cinque per volta nell'ambulatorio; un infermiere ci disinfettò una piccola zona del petto ed un altro ci infilò un ago da siringa. Subito dopo passò l'ufficiale medico che iniettò ad ognuno di noi un centimetro cubo di vaccino con una siringa da cinque centimetri. Uno dei colleghi, vedendo l'ago infilato nel petto svenne. Dopo la vaccinazione venne a quasi tutti un po' di febbre e per un paio di giorni fummo esonerati da ogni attività. Io avevo comprato un rotocalco nel cui paginone centrale c'era una ragazza in bikini con una sciarpa azzurra ed una sciabola. Convinto di fare una cosa simpatica appesi quella pagina alla parete nei pressi del mio letto. Il Capitano Miceli, venuto nelle camerate per avere notizie sul nostro stato di salute, vide la foto e dopo il sacrosanto "cazziatone" mi ordinò di farla sparire in fretta.

        

Poco tempo dopo l'inizio del corso ci consegnarono le “sinossi” (i libri di testo). In quella occasione, alla vista di tanti libri c'era stato qualche brontolio. Il Sottotenente Minissi ci richiamò all' ordine affermando che non dovevamo dimenticarci di essere dei volontari. Io sostenni che non era esatto: noi avevamo semplicemente operato nell'ambito di una scelta ristretta tipo: è meglio essere serviti a tavola da un cameriere in giacca bianca o essere quel cameriere che serve ai tavoli?

 

Il fatto di portare una divisa dovrebbe rendere simili tutti i militari, ma in realtà non è sempre così; il nostro Comandante di Batteria, il Capitano Miceli Sopo Calogero, aveva un modo di portare la divisa che lo rendeva, forse, unico. Era sempre talmente elegante da far pensare che facesse confezionare le sue divise su misura; non aveva mai una piega fuori posto, il basco era sempre calzato alla perfezione, le scarpe lucidissime, ecc. Durante l'ora di lezione che ogni tanto ci teneva, il Comandante ci propose l'acquisto di accessori fuori ordinanza della divisa: il basco "Kangol" originale scozzese, i guanti in pelle e il nastrino dorato da cucire sul colletto della giubba, in sostituzione di quelli d'ordinanza, sicuramente meno eleganti. Evidentemente il nostro Capitano voleva che i suoi Allievi fossero eleganti come lui. Lo accontentammo e tutti quanti acquistammo basco, guanti e nastrino

 

I primi giorni del corso ci allinearono in ordine di statura. I Sottotenenti De Stefano e Minissi cominciarono a chiamarci partendo da uno e sessanta (altezza minima per poter essere ammessi al corso AUC), poi ordinarono che si presentassero quelli alti uno e sessantuno, poi uno e sessantadue ecc. Alcuni bassottini, tra i quali Giuseppe Bombara (che poi verrà denominato “lo scovolo  della pesante”), Franco Prisco, Gianfranco Maiardi e Antonio Gruppo, pur essendo chiaramente meno alti di quelli chiamati, continuavano ad attendere; i due ufficiali, incuriositi, domandarono quale fosse la loro statura: -Uno e sessanta con la raccomandazione! Fu la risposta.

        

Durante il Corso AUC successe spesso che ci instillassero una sorta di rivalità con le altre armi. Una volta, mentre si faceva addestramento formale, il Sotto Tenente Minissi, scontento di come marciavamo esclamò: - Ma questa è fanteria, non è artiglieria!- Successivamente ci insegnarono la canzone: - Bomba e ribomba, siamo artiglier...- nel corso della quale c'è una strofa che recita così: -Senti che puzza c'è nella via, certo è passata la fanteria!-

 

Avere un metro e ottanta di altezza, durante il Corso Allievi Ufficiali, è stata una grossa fregatura. Per ogni occasione (Picchetto d'onore, Picchetto Funebre, Guardia al Quirinale, ecc.) “cuccavano”, prima di tutti, quelli alti da uno e settantanove a uno e ottantuno. Per il “Giuramento”, dove peraltro dovevamo sfilare tutti, anche i “bassotti” e gli “stralunghi”, il Sottotenente De Stefano mi sistemò in prima fila e mi resi subito conto che era una scocciatura: non mi dovevo assolutamente muovere, neppure sul “riposo”. Ci voleva una trovata per farmi spostare più indietro. Ci pensai su e decisi il da farsi: con la baionetta, innestata sulla carabina Winchester, mi grattai più volte l’orecchio destro. Le prime due volte il S.Ten. De Stefano mi richiamò all’ordine, la terza mi fece andare in terza fila: avevo raggiunto il mio scopo.

 

La libera uscita presentava delle incognite. Quasi tutti uscivamo con l'intenzione di andare a cenare in uno dei tantissimi ristoranti di Bracciano e quindi rinunciavamo ad andare alla mensa. Però poteva succedere di essere scartati dall'Ufficiale di servizio nel qual caso ci si doveva arrangiare con scatolame acquistato allo spaccio. Io avevo un grosso problema: le scarpe da libera uscita mi stavano strettissime (a furia di marciare i piedi mi si erano gonfiati), avevo chiesto, al Caporal-Maggiore addetto alla nostra Batteria, di poterle cambiare e ricevuto un diniego, ne avevo comperato un paio simile a Bracciano. Ogni volta temevo di essere scartato a causa della differenza tra le scarpe che indossavo e quelle d'ordinanza. Una volta era di servizio il Sottotenente De Stefano, che era molto in gamba; mi resi conto che si era accorto che non indossavo le scarpe d'ordinanza ed io per distrarlo sollevai i pantaloni per mostrare che avevo le calze in ordine; lui trattenne a stento la risata e mi fece cenno di uscire. In tutti i ristoranti di Bracciano si mangiava benissimo; a me, tra l'altro, piacevano i cannelloni e in quasi tutti i locali ne servivano tre. Per abitudine, quindi, io chiedevo: -Doppia razione di cannelloni!- In un ristorante, nel quale non ero ancora stato (da Sora Tuta), servivano sei cannelloni come razione normale; non sapendolo chiesi la solita doppia razione; il cameriere mi chiese se ero sicuro, io confermai e me ne portarono dodici; non mi scoraggiai, riuscii a mangiarli tutti ed a farmi servire anche un secondo.

 

         Il giorno in cui si andò ad imparare a lanciare le bombe a mano, il Capitano Miceli  ci fece un breve discorso introduttivo col quale ci faceva presente che non bisogna avere paura delle armi ma bisogna averne il giusto rispetto e la necessaria attenzione. Poi fece un lancio dimostrativo, senza utilizzare la protezione dei sacchi pieni di terra. Successivamente ci fecero schierare lontano dalle piazzuole, protette dai sacchi e ci avvertirono che dovevamo stare in piedi e con l’elmetto, perché ci potevano piovere addosso delle schegge. Tra me e Mario Favilla bastò uno sguardo, ci eravamo capiti al volo. Eravamo agli ultimi posti e nessuno badava a noi, essendo tutti concentrati sui primi tre che dovevano lanciare le bombe a mano. Ci riempimmo le mani di pietroline ed aspettammo il lancio e, subito dopo, gettammo verso l'alto le pietroline in modo che cadessero sopra gli elmetti degli ignari commilitoni. Le reazioni furono immediate: tutti si meravigliarono per la quantità di quelle che credevano schegge, piovute sugli elmetti e, inizialmente, nessuno si rese conto che era stato uno scherzo.

        

         Io e Mario Favilla ci divertivamo ad organizzare molti scherzi, sia insieme che separatamente; a volte si aggregavano: Pino Federici, Claudio Solaro, Luigi Palazzini, Nino Oreni, Lele Tarantino, Angelo Pe, Franchino Coppo, Giorgio Zocchi ed altri buontemponi; gli scherzi non li posso ricordare tutti ma alcuni me li ricordo bene. Mario inventò il “gavettone con falso scopo” che consisteva nel gettare un po’ d’acqua addosso ad un nostro collega che dormiva, durante il riposo pomeridiano; prima però bisognava lasciare per terra una scia di gocce che sembrava provenisse da un altro letto dove dormiva un ignaro commilitone. Il collega “gavettonato” si svegliava e, adiratissimo, seguiva la traccia liquida, prendendosela poi con l’incolpevole dormiente. Io inventai, una domenica,  “l’auto-gavettone con l’elmetto”. Gli elmetti dovevano restare, sopra gli zaini che stavano sopra gli armadietti, col fregio rivolto verso il davanti; ne rivoltai quattro o cinque riempiendone uno d’acqua. Potei lavorare indisturbato perché gli altri erano quasi tutti a Messa. Quando tornarono qualcuno si accorse degli elmetti mal messi e disse: -Ma chi è quel pirla che mi ha rivoltato l’elmetto?- Lo rimise in ordine e cosi fecero gli altri, compreso il predestinato che si auto gavettonò.

        

         Ogni tanto compariva uno dei Sergenti, a volte Andreoni, altre Della Pergola, che comandava una “adunata”. Una volta il Sergente Antonini ci urlò: -Adunata con gli anfibi chè er carzolaro ve deve da mètte i feretti!- Qualche giorno dopo io e Mario Favilla gridammo: -Adunata col copriletto!- Tutti ci cascarono e noi, dopo, fingemmo che si fosse trattato di un errore o di un malinteso e che comunque non era partito da noi.

 

         Pochi giorni prima del giuramento in Italia venne adottata l'ora legale e quindi la sveglia suonava un'ora prima. Anche l'Esercito aveva un orario estivo che anticipava le normali attività di mezz'ora e che era entrato in vigore pochi giorni prima, senza tener conto che stava per entrare in vigore l'ora legale. In conclusione, malgrado stesse arrivando l'estate, ci dovevamo svegliare un'ora e mezza prima, quando era ancora buio pesto. Il primo giorno in cui entrò in vigore il nuovo orario il Capitano Miceli Sopo seppe darci il giusto esempio, come un buon padre di famiglia, infatti, al momento in cui suonò la sveglia, era nella nostra camerata, ovviamente con la divisa in perfetto ordine e quindi si era dovuto svegliare molto prima di noi. La sua presenza scoraggiò i colleghi abituati ai piagnistei o ai moccoli mattutini. Insomma, il suo esempio ed i suoi insegnamenti ci aiutarono a crescere ed a comportarci da uomini.

 

Per il giuramento fummo schierati, in fila per tre, davanti alle tribune dove stavano i parenti e gli Ufficiali Superiori, tra i quali il Generale Palla, nostro Comandante di Brigata. Dopo il discorso di circostanza il Colonnello Mariotti, Comandante della Scuola di Artiglieria, lesse la formula del giuramento: -Giuro di essere fedele alla Repubblica Italiana e al suo Capo, di osservarne le leggi e di adempiere ai doveri del mio stato al solo scopo del bene della Patria! Lo giurate voi?- A questo interrogativo ci fu un urlo all'unisono. Tutti, sollevando verso l'alto il braccio destro, avremmo dovuto gridare: -Lo giuro!- C'era, però, un' infame usanza: quella di gridare ben altro. Molti sostituivano la risposta prevista con: - L' ho duro!- Io  avevo progettato, per differenziarmi dagli altri, di gridare: - Fa' n culo! Ma, al momento fatidico sono sicuro che tutti rinunciammo al cinico intento e gridammo -Lo giuro!- (me compreso).

                  

         Per il mio primo servizio di sentinella, uno dei primi giorni di giugno dopo il giuramento, fui destinato ad un percorso che confinava con quello di Andrea Lauricella. Era una notte molto piovosa e, all’ora del cambio, i sostituti indossavano uno scaccia-acqua con un cappellaccio simile al copricapo dei pompieri americani. Nel vedere arrivare quelle strane figure, difficilmente riconoscibili per il buio, Lauricella si attaccò al telefono da campo e, col suo tipico accento siciliano, urlò: -Capoposto … Banzai… stanno arrivando i Giapponesi!-

        

Una delle mie più grandi delusioni fu la carabina Wincester che mi fu consegnata con l'obbligo di trattarla come se fosse stata mia figlia. Dovevo pulirla, lubrificarla, scovolarla, tenerla sempre in sicura nella rastrelliera del nostro box e, ogni tanto, smontarla e rimontarla. Il Sottotenente Mervi si disperava ogni volta che seguiva lo smontaggio della mia carabina, perché la riducevo in tantissimi piccoli pezzi e lui non credeva che sarei riuscito a rimontarla, cosa che invece avveniva puntualmente. Quando ci portarono al poligono per sparare con le carabine scoprii che la mia era talmente vecchia e consumata che i proiettili si incastravano e il caricatore si inceppava. Mervi, che era un giovanottino sui diciannove-vent'anni, assunse un  atteggiamento strano, come se la colpa fosse mia; io reagii dicendogli che una carabina del genere doveva essere rottamata e non era serio darla in uso ad un Allievo Ufficiale.

 

Oltre che con la Wincester, ci fecero sparare con la pistola Berretta, con il M.A.B. (moschetto automatico Berretta), con il F.A.L. (fucile automatico leggero) col B.A.R. (Browning Automatic Rifle) e con le mitragliatrici M.G. e Browning. Quando si sparò con le ultime due io fui comandato, insieme ad altri colleghi, per lo “sgombero poligono”; ci portarono in una spiaggia dove trasportammo dei bidoni che servivano da obiettivi e predisponemmo le cartucciere con proiettili normali e traccianti (uno ogni dieci). Quando, dopo molte ore, tutti gli altri avevano sparato con entrambe le mitragliatrici, fu la volta di noi dello sgombero poligono; io non ne potevo più e quando toccò a me (ero l'ultimo) sparai tutti i colpi disponibili senza fermarmi mai, col risultato di rendere incandescente la canna della Browning.

        

            Ad uno degli interrogatori di Topografia, ero seduto in attesa che arrivasse il mio turno; stavano interrogando Antonio Gruppo. L'esaminatore gli chiese in che modo si potevano rilevare da una tavoletta (la carta topografica in scala 1:25.000) le coordinate di un punto. Gruppo rispose in romanesco: - Mbe! Pijo er coordinadomedro...- Il docente, irritato, esclamò: -Parli in lingua!- Al che Gruppo si corresse: - Prendo il coordinatometro...-

 

         Quando ci assegnarono alle varie specializzazioni (Campagna, Pesante Campale, Pesante, Missili e addetti alle Trasmissioni) fummo spostati di camerata o di box; nella seconda camerata furono destinati tutti quelli della Campagna e nella prima tutti gli altri. Durante l'ora di lezione del Capitano Miceli Sopo, Bruno Maiello spiegò che ci dispiaceva di essere allontanati da quelli coi quali ci si era affiatati. Il Comandante riuscì a sdrammatizzare ed a farci sorridere ironizzando sulla parola "affiatati" che pronunciò soffiando sulle due effe.

 

         Una sera, vicino al letto a castello in cui dormivo c'era un paio di scarpe di un collega che dormiva in un letto vicino, che emettevano un odore di "cadavere"; il mio compagno di branda, che dormiva al piano superiore, sentendo quella puzza, si innervosì ed allontanò una delle scarpe con un calcio e l'altra la gettò lontano oltre il muro che divideva il nostro box da quello vicino. Si senti un moccolo: - Madonna (omissis)!- di chiara origine toscana; la scarpa, evidentemente, continuò il suo viaggio perché subito dopo si sentì un altro moccolo: - Dio (omissis)!- proferito da un collega veneto e dopo quello si udì un urlo belluino in sardo: -Su cunn'e mamma tua!- seguito da: - Ma li mortacci tua... - urlato da un romano.

        

         In un primo tempo mi fu assegnata la specializzazione di “goniometrista di gruppo”, incombenza che condividevo con Mario Favilla. Avevamo capito che era un buon sistema per “imboscarci” ed essendo entrambi geometri, ci eravamo autoproposti, con successo, per questo incarico. Il nostro compito, quando si faceva l’esercitazione al tiro, era quello di collimare, col goniometro (uno strumento ottico che serve per misurare gli angoli), sui quattro carri semoventi e indicare loro l’angolo rilevato. Dovevamo recitare una filastrocca che era più o meno così: -Batteria in azione! Falso scopo goniometro di batteria, posto sul retro al centro dello schieramento; primo pezzo, parallelismo iniziale… secondo pezzo… ecc. Dopo aver dato, ai quattro pezzi, anche il parallelismo corretto, per loro iniziava l’esercitazione vera e propria e per noi il meritato riposo. Il Sottotenente De Stefano, che addestrava la “Campagna”, ordinava: - Batteria in azione! Obiettivo di batteria: concentramento a percussione, granata ordinaria, spoletta istantanea, carica sesta!- Il caricatore doveva ripetere: -Carica sesta!- e il capo pezzo doveva confermare: - Esatto!- Dopo di che il Sottotenente dava i dati per il tiro al primo pezzo, che doveva fare “l’aggiustamento”, poi ordinava di “caricare” l’obice da 105/22; infine ordinava il: -Fuoco!- Naturalmente, trattandosi di un’esercitazione, si fingeva di sparare; ma spesso c’era qualche spiritoso, tra i componenti dei vari equipaggi che, dopo quell’ ordine, che veniva ripetuto dal Capo-pezzo, rispondeva: -Buum! E il Sottotenente, magari controvoglia (perché anche lui sorrideva) gli gridava: - Stia punito!

        

Una domenica, mentre gli altri andarono a Messa, fui incaricato di fare giardinaggio insieme agli altri “eretici”. Alla fine della Messa rientrarono i vari reparti suddivisi in “Sezioni”. Davanti a me sfilò la prima Sezione degli Allievi del 42° Corso (i nostri “nonni”) a passo cadenzato, comandata da un Allievo Scelto che ogni tanto urlava: -Pa-ssoò, unò duè.- Io, imitandone la voce, urlai:- Attenti aDest!- Gli allievi, obbedirono prontamente al mio ordine, girarono di scatto la testa e videro me che facevo un perfetto “presentat-arm” …col rastrello.

 

Ognuno di noi dovette fare, almeno una volta il “piantone”, con l'incarico di dare la sveglia la mattina e di scopare e lavare la camerata. Quando toccò a me diedi il cambio a Zocchi, che il giorno prima ci aveva dato la: -SVEGLIAAAAAA!- con urla strazianti. Ci eravamo alzati tutti contrariati ed irritati. L'indomani io diedi la sveglia cantando: E' primavera... svegliatevi bambini...- La reazione fu positiva, molti dissero: -Così va molto meglio!-

 

Essendo spesso costretto a restare in caserma, durante la libera uscita, a causa delle numerose “punizioni”, mi feci mandare da casa la fisarmonica, la chitarra e la tromba per esercitarmi un po’. Una sera stavo provando a suonare qualcosa con la tromba; Luigi Palazzini mi suggerì: -Caporale di giornata- Io provai quel motivetto e dalla camerata vicina, quella degli ACS (gli Allievi Sottufficiali), si udì un urlo: -Puniti!- Subito dopo il gruppo dei puniti, preceduto dal Caporale di giornata, corse, a passo cadenzato, verso l’ingresso principale dove stava l’Ufficiale di Picchetto. Non so che cosa accadde successivamente, ma la cosa ci piacque molto e qualche tempo dopo, vedendo il Picchetto Armato degli allievi del 44° in attesa, Palazzini mi disse: - A Pirò.. questi vonno esse chiamati, pija 'sta tromba!- io lo accontentai e suonai il richiamo; anche in questo caso corsero, con passo cadenzato, verso l’Ufficiale di Picchetto che vedendoli arrivare urlò. –Ma chi ca... vi ha chiamato!- La sera, al contrappello, lo stesso Ufficiale (un napoletano simpaticissimo che mi pare si chiamasse Pengue), molto divertito, per mia fortuna, disse: -Qui c’è una tromba fantasma! Eh, eh!-

 

Il mio incarico di goniometrista, purtroppo, non durò a lungo. Il Sottotenente De Stefano decise di organizzare un quinto carro e incaricò Laconi di fare il Capo-pezzo. Gianfrancesco accettò ad una condizione: che io facessi parte dell’equipaggio. Nel nostro carro c’erano anche Ferdinando Ceccarelli, Umberto Francisci, Paolo Grappasonni e Nicola Zingaro. Quando si andò a sparare (sul serio) a Monte Romano, il mio compito era quello di “caricatore” con l’onere di “preparare”, insieme a Zingaro, le granate da 105 millimetri: cioè infilare la carica di lancio nel bossolo, incastrarvi la granata e caricarla nell’obice. Ogni volta che caricavo la granata nella culatta della bocca da fuoco “benedicevo” Laconi per aver avuto tanta stima nei miei confronti. Preparando una granata Zingaro lasciò, incautamente, un dito nel bossolo, io non mi ero reso conto della situazione e cercai di incastrare la granata nel bossolo mentre Zingaro, col dito bloccato, gridava: - Pirodda, o dito! Pirodda, o dito!

 

Riuscii ad evitare qualche ora di addestramento proponendomi come componente della redazione del “MAC P” (il giornaletto di fine corso). Lavorai con Roberto Bertini, Gino Colombo, Mario Favilla, Marco Rosellini, e Roberto Roberti; gli ultimi tre furono anche gli autori della parte grafica. Ci fu anche la collaborazione esterna di Massimo Setta.

 

Le mie capacità manuali avevano fatto si che fossi molto richiesto in tanti casi particolari: armadietti da scassinare perché si erano persi la chiave, bilancieri da sostituire negli sciacquoni, ecc.ecc. Una volta Franco Galassi mi chiese di sistemargli la fibbia di un anfibio che si era sfilata; la sistemai in breve tempo e lui, che inizialmente era un po' preoccupato, mi disse: - Tu si 'na cosa grande!

 

Inizialmente non avevo preso sul serio il servizio militare; tra l'altro sono stato uno dei predestinati alla bocciatura. Al compito di addestramento N.B.C. presi una “deficienza”. Era la mia terza “deficienza”; la prima l’avevo “buscata” all’ora di topografia. Il giorno ci teneva la lezione un Maggiore baffuto, di cui non ricordo il nome, che aveva sempre un’ espressione sprezzante; questo fatto ispirò a Franco Galassi una battuta meravigliosa: -Al Maggiore puzzano i baffi!- Il docente mi colse che dormivo; essendo geometra le lezioni di topografia (materia nella quale non ho mai avuto problemi) non destavano in me alcun interesse. L'Ufficiale mi chiese di che cosa stava parlando ed io non seppi rispondere. La seconda “deficienza” la presi dopo essere smontato dal servizio di sentinella: avevo “l’interrogatorio” in Tiro ma ero talmente stanco che non ero in grado di intendere e di volere. Eravamo in quattro ad aver riportato tre “deficienze”. I superiori decisero che noi quattro non avremo superato il corso. In ogni Corso A.U.C. qualche allievo viene bocciato; non tutti quelli che lo meriterebbero, solo tre o quattro (forse più meritevoli di altri) per dare l’esempio. Noi quattro eravamo stati destinati a questo fine. Mentre ci accompagnavano dal Maggiore Bertelli, che aveva sostituito il Maggiore Mangiacapra al comando della caserma e che ci doveva fare il “cazziatone”, spiegai al Tenente Chiaravalli, nostro nuovo Comandante di Batteria, che ero stato interrogato nuovamente sia in Topografia che in Tiro ed avevo riportato due ottimi voti; non avevo potuto ancora rimediare al voto negativo in addestramento N.B.C. perché avevamo fatto un solo compito pochi giorni prima, inoltre in quel compito pochissimi avevano preso la sufficienza. Questa situazione mi fu favorevole. Il Maggiore Bertelli s’infervorò e decise che chi cade nel fango ed ha la forza di rialzarsi è persona encomiabile; aggiunse anche che ero: -come un tuffatore che con colpo d'anca, aggiusta la traiettoria sbagliata e s'infila in acqua in modo perfetto! Insomma, mi considerarono un esempio da seguire e perciò mi salvai; dopo questo episodio mi chiamarono "quello del colpo d'anca". Purtroppo gli altri tre compagni di sventura furono bocciati, insieme ad un quarto. Alla fine del corso mi classificai 124°. Al 125° posto si piazzò Francesco Bonura e, di seguito, i quattro non promossi. Ancora adesso mi domando come abbia fatto Bonura a "fregarmi" l’ultimo posto utile: si sarà fatto raccomandare? Dopo il "cazziatone" del Maggiore Bertelli ci portarono in CP (camera di punizione) e dormimmo sul tavolaccio. Tra i puniti c'era anche Andrea Lauricella che ogni tanto si affacciava alle sbarre e, scuotendole, gridava: - Fatemi uscire!-

 

Un giorno ci ordinarono di correre anche quando ci spostavamo, singolarmente, per andare allo spaccio o alla mensa. Non molti giorni dopo, il Maggiore Bertelli diede ordine che fossimo riuniti in prossimità del suo ufficio perché doveva comunicarci una cosa importante. Il Tenente Chiaravalli dispose che fossimo inquadrati un'ora prima per poterci controllare bene (storia vecchia). Il Sottotenente Minissi, Sottocomandante di Batteria, anticipò l'adunata di un'altra ora e quando, due ore dopo, arrivò il Maggiore, mi resi conto di aver dormito in piedi, non so per quanto tempo. La cosa importante che doveva dirci era che la corsa era abolita; si erano ricordati che un anno prima un Allievo, a causa del buio, aveva inciampato sul cavo che reggeva la rete da pallavolo, ed era morto.

 

Io sono sempre stato un "posapiano" per cui, quando il Tenente Chiaravalli ci riunì nel campo di ardimento per farci fare un esercizio nuovo, che consisteva nel prendere una lunga rincorsa, balzare su una pedana flessibile in legno, che ci dava lo slancio per farci effettuare una giravolta e ricadere in piedi, pensai che non ci sarei mai riuscito. L' idea di fare un "salto mortale" mi preoccupò non poco, ma quello che mi scocciava di più era il timore di fare una brutta figura davanti a tutti. Quando fu il mio turno ci misi tutto l'impegno possibile e mi meravigliai nel constatare che poi non era stato così difficile effettuare quell' esercizio, che nessuno aveva fallito. In quei giorni iniziò il "corso d'ardimento". La prima prova era il salto dalla torre, il livello più basso era a quattro metri; ognuno di noi doveva salire sulla torre, un superiore ci chiedeva il: - Nome!- e noi dopo esserci presentati dovevamo aspettare l'ordine: - Via!- e buttarci. Sotto c'erano i nostri colleghi, comandati dal superiore, che reggevano un telone di salvataggio, e non si rischiava niente: si poteva anche cadere male senza pericolo, visto che l'altezza era minima. Ricordo che Giuseppe Braghetto, che si buttò senza problemi, fece uno strano gesto istintivo: mente era in volo si tappò il naso con l'indice ed il pollice, come se si stesse tuffando in mare o in piscina. Ci buttammo tutti, tranne uno, che provò alcune volte ma non trovò mai il coraggio. Ci sarebbero state poi altre prove compresi i salti dai sei e dagli otto metri, ma non si arrivò a tali altezze, infatti il giorno dopo il Tenente Chiaravalli, visibilmente contrariato, ci riunì per comunicarci che il corso di ardimento era stato abolito. Aggiunse, furente, che uno di noi, molto raccomandato, era riuscito ad interessare non so bene quale alto comando, che aveva provveduto a dare tale disposizione. Non sapendo chi fosse il responsabile di quella decisione ognuno di noi ipotizzò i nomi più disparati: Tizio è un  pezzo grosso della Democrazia Cristiana; Caio è figlio di un Generale ecc. Ma non si seppe mai chi fu il responsabile.  Pur essendo, come ho detto, un "posapiano" l' abolizione del corso di ardimento non mi fece piacere per niente; a parte i salti, che peraltro non mi interessavano più di tanto, avrei voluto provare a fare la discesa dalla torre con la carrucola, lungo la fune inclinata, ma non ci fu mai permesso.

 

Il 22 luglio dodici di noi furono nominati Allievi Scelti. Alcuni lo meritavano, ma per un paio non comprendemmo quali doti avessero evidenziato. Dopo la loro nomina le varie Sezioni vennero comandate dagli Allievi Scelti. Una domenica, all’ora del pranzo, eravamo in fila, suddivisi per sezioni, nell’attesa di entrare in mensa e, per la prima volta, non c’erano i Sergenti. Ogni volta che una Sezione entrava nella mensa, le altre, una per volta, dovevano avvicinarsi all’ingresso. Gli spostamenti venivano effettuati a passo di marcia; l’Allievo Scelto dava l’attenti alla propria Sezione e ordinava l’avanti marc. Effettuato lo spostamento ordinava: -Sezione alt, ri-poso- A questo comando si sarebbe dovuto sentire il colpo delle suole e dei tacchi sinistri all’unisono. Le prime tre Sezioni erano del 42° AUC; la prima effettuò un riposo scadente e, invece che un unico colpo, si sentì una “scarica di fucileria”. Ci fu un mormorio generale di disapprovazione. La seconda Sezione si mise d’impegno ed effettuò lo spostamento e il riposo in modo perfetto con conseguente coro di consensi. Tutti ci concentrammo sulla terza per vedere come se la sarebbe cavata; dopo l’ordine: -avanti marc!- camminarono tutti in punta di piedi, senza fare il minimo rumore. Ci fu un’esplosione di risate, talmente forte che l’Ufficiale di Picchetto ci raggiunse preoccupato e ci chiese: -Che ca... sta succedendo qui?-

 

Una delle ultime notti di luglio, in ossequio alle usanze della caserma, così come era avvenuto due o tre mesi prima da parte dei nostri "nonni", organizzammo il "gavettone alle lampade". Si trattava di una sorta di "battesimo" fatto con secchiate d'acqua e destinato agli allievi del corso successivo al nostro (il 44°). La cosa era tollerata dai superiori che, di nascosto, si divertivano a guardare. Essendo sicuri dell'impunità sia noi che le lampade ci divertimmo un mondo e la finimmo bagnati fino al midollo. Io non mi stancai di incitare i miei colleghi suonando la "carica" con la tromba.

 

Poco prima degli esami venne organizzato un corso di aggiornamento per quelli che presumibilmente sarebbero stati destinati alla Caserma Piave di Civitavecchia dove c'era un Gruppo sperimentale con carri semoventi nuovissimi e differenti da quelli di Bracciano. Io chiesi di poter partecipare ma il Sottotenente De Stefano mi disse che per poter essere destinato a Civitavecchia ci voleva "una coperta molto grossa" e non mi consentì di partecipare. Non poteva prevedere che sarei stato destinato proprio a quel reparto: anche io avevo trovato, per la prima volta, la giusta raccomandazione. Quando, qualche tempo prima, ci avevano fatto conoscere le nostre possibili destinazioni, mi ero reso conto che, essendoci in batteria 35 romani (quasi tutti raccomandati), avrei dovuto imparare a fare "l'igloo", cioè mi avrebbero destinato in un qualche reparto dell'estremo nord. Infatti i posti disponibili erano: una decina a Bracciano, 4 o 5 a Civitavecchia, uno a Persano (in Campania), tutti gli altri in alta Italia e nessuno in Sardegna. Non ho niente contro il nord ma essendo fidanzato avrei voluto una destinazione che mi potesse consentire di arrivare a Cagliari senza dover fare due giorni di viaggio. Scrissi una lettera alla mia famiglia che, al contrario del solito, faceva trasparire la mia tristezza. Essendo una cosa insolita (scrivevo sempre lettere scanzonate ed allegre) tutti si preoccuparono ed un mio zio, che era presente, mi fece telefonare per chiedermi che problema c'era e conosciutolo si diede da fare. Era Ingegnere alle Ferrovie di Cagliari e ogni tanto riceveva lettere di raccomandazione da un importante uomo politico della "democrazia Cristiana". Finalmente aveva trovato un'occasione per vedere se avrebbe avuto uno scambio di cortesie e gli scrisse, chiedendo se c'era qualche possibilità di aiutarmi. Il politico promise che sarei stato destinato a Civitavecchia, sede sperimentale che consentiva di non cambiare destinazione dopo il periodo da Sergente e che era la sede più "vicina" a Cagliari.

 

L'ultimo giorno fummo schierati in un piazzale della "Romano" e convocati, uno per volta, per la consegna del "baffo" da Sergente AUC. I sentimenti erano contrastanti: eravamo felici che quella rottura di scatole del corso fosse finalmente finita ma, nello stesso tempo, ci dispiaceva di dover salutare, forse per sempre, quei colleghi ai quali ci eravamo, fatalmente, affezionati. Carlo Bolla riuscì a ridarci un po' di buon umore, chiese a uno dei Sergenti (il più severo e intransigente), col suo caratteristico accento veneto e l'inconfondibile voce un po' rauca, visto che eravamo ormai colleghi, se poteva dargli del tu; ricevuto il consenso lo mandò allegramente... a cagare!        

 

La posizione nella graduatoria finale era importante: a parità di grado chi si era piazzato prima veniva considerato più anziano. Quando Franco Galassi, Umberto Francisci, Franco Prisco, Orazio Russo ed io, fummo destinati, col grado di Sergente AUC, a Civitavecchia, il più “anziano” era Orazio Russo e, in ogni occasione, veniva considerato il “responsabile” di noi cinque. Il giorno che ci presentammo al Comando del 2° Gruppo della 2a Brigata Corazzata “Centauro”, l’Aiutante Maggiore, il Ten.Corvese, ci chiese: -Per fare più in fretta, chi non è di Roma?- e sentendosi rispondere: - Napoli!- -Benevento!- -Caserta!- -Cagliari!- Si meravigliò e gridò: -Un solo Romano! Questa volta non ci sono raccomandati!- Al che Prisco, col suo accento “napoletano verace”, chiarì: -Non è esatto! Siamo più raccomandati dei Romani!-

 

A Civitavecchia bisognava indossare le "mostrine" di Artiglieria Corazzata, diverse da quelle che avevamo a Bracciano, per cui, appena arrivati ci dissero di presentarci al magazzino-deposito e di farcele consegnare. Il maresciallo responsabile del magazzino (un siciliano che odiava i Sergenti AUC) ci disse: - Senza la scheda-corredo neanche uno spillo esce dal magazzino!- Fummo costretti ad uscire dalla caserma ed a comprarci, all'Unione Militare, mostrine fuori ordinanza, in panno invece che in plastica. Il Tenente Colonnello Visintin, Comandante del Gruppo quando ci vide ci ordinò di togliere le mostrine fuori ordinanza e di mettere quelle d'ordinanza. Siccome il maresciallo restava fermo nella sua posizione, fummo costretti a chiedere aiuto ai colleghi più anziani, Spano, Peleggi, Minerba e Viali. che ci prestarono un paio delle loro. Successivamente scoprimmo che le mostrine erano materiale di facile consumo e non andavano caricate sulla scheda-corredo, che non era ancora arrivata da Bracciano. In poche parole il maresciallo ci aveva fatto spendere dei soldi solo per farci un dispetto. Ce la legammo al dito, ripromettendoci di fargliela pagare una volta acquisito il grado di Sottotenente.

 

Quando il Tenente Colonnello mi vide col (ridicolo) cappotto extra-lungo, mi ordinò di farmelo accorciare. Il sarto ne eliminò circa 20 centimetri. Nella parte posteriore c'era uno spacco con cinque bottoni; dopo il taglio ne restarono solo tre, ma il sarto recuperò gli ultimi due e li inserì tra gli altri, in modo tale che i bottoni fossero sempre cinque perché gli ultimi tre si dovevano tenere sempre sbottonati. Era una vecchia consuetudine (obbligatoria): l'Artiglieria era un' arma "a cavallo" e il cappotto abbottonato sul retro poteva essere di impaccio quando si cavalcava (cosa oltremodo improbabile nel 1966).

 

L’alloggio che ci fu destinato aveva il muro che non arrivava fino al soffitto e nell’ambiente vicino c’era una Fureria. La mattina presto arrivavano i furieri e, quasi sempre, si scambiavano offese tipo: -Sciacquino!- -Lecchino! -Sciacquapalle! ecc.  Franco Galassi,  una  volta,  trovò  una  delle  sue battute   migliori: -Stanno facendo l’appello!-

 

Qualche volta, di domenica, si andava a Roma, a casa di Francisci, dove eravamo sempre bene accolti dai genitori di Umberto. La madre era un’ottima cuoca ed io e Galassi le davamo molta soddisfazione, assaggiando tutto quello che cucinava. Quando, per motivi di servizio, io non potevo andare, lei domandava al figlio: -Non è venuto l’amico tuo, quello che magna tanto?- Una volta Francisci, che era proprietario di cavalli da trotto e, come il padre Aurelio, un ottimo guidatore (campione italiano dei “Gentlemen”), ci convinse a puntare diecimila lire sul cavallo che doveva guidare quella domenica. Arrivati a Tor di Valle ci portò nei box e, visto il cavallo, che era di un suo amico, decise di non farci puntare più, perché gli sembrava un cavallo “ombroso”. Al totalizzatore lo davano a 7,7 cioè, puntando £.10.000, avremmo vinto £.77.000 che, allora, era più dello stipendio di un Sergente. Noi seguimmo la corsa dalla curva dei box dove non si vedeva il rettilineo d’arrivo; al primo giro Umberto era nel mezzo, tra molti altri cavalli. Al secondo giro era terzo ma completamente chiuso dagli altri due cavalli. Grande fu la nostra meraviglia quando sentimmo annunciare dall’altoparlante che aveva vinto; Orazio Russo esclamò: -'Stu fetente! Non ci ha fatto puntare!- Poi, su indicazione di Francisci, puntammo qualcosa sulla corsa tris e vincemmo; ma una cifra molto meno importante. Quel giorno Umberto ci confidò il proprio dispiacere perché una delle sue cavalle più veloci aveva raggiunto l’età della pensione. Io, che non capivo niente di cavalli, di trotto o di galoppo, gli suggerii di farla montare da Ribot, un cavallo che era diventato leggendario, per le sue vittorie nelle corse al galoppo, e che era anche lui in pensione. Umberto mi guardò con aria schifata e disse: -Ma così te nasce un “galoppino”!-

 

Ero il solo Sergente AUC ad avere la diagonale; l'avevo comprata, a buon prezzo, da un amico a Cagliari. A Civitavecchia feci sostituire bottoni e mostrine e inserire la fettuccia dorata (da AUC) sul colletto ed il "baffo" da sergente, dal sarto della caserma e quando arrivò il nuovo Comandante della Brigata, fui scelto per far parte della "rappresentanza" che doveva accoglierlo nella caserma "Aurelia". Era la caserma del glorioso "1° Reggimento Besaglieri" (quello di Porta Pia). Io non avevo mai visto, fino ad allora, i bersaglieri; per cui quando ci schierarono per la manifestazione, davanti ai reparti "armati" fra i quali stavano anche i miei colleghi in tenuta di marcia con anfibi e pistola, mi meravigliai nel vedere che i bersaglieri correvano sempre. Prima arrivò, al suono della fanfara, che eseguì una marcetta simile alla "pappa al pomodoro", un gruppetto di quattro bersaglieri, uno dei quali, un Sottotenente, reggeva la bandiera. Erano giovani, snelli, e la loro corsa era sicuramente elegante. Subito dopo arrivò il Colonnello Comandante, che era molto grasso e, per non sfigurare troppo, si era fatto accompagnare da due Marescialli grassi più o meno come lui. Tutti e tre correvano con la sciabola sguainata (quella curva da bersagliere) e, proprio davanti a noi, al Colonnello caddero tutte le medaglie ed i nastrini; uno dei marescialli li raccolse e lo aiutò a rimettersi in ordine mentre io mi morsicavo la lingua per non ridergli in faccia. Subito dopo il Colonnello iniziò il discorso, sempre con la sciabola sguainata, tenuta alta. Le prime parole furono: -Arditi! Corazzati!...- Continuai a mordermi la lingua e pensai: -Chi io?- Dopo il discorso, arrivò con passo lento e calma olimpica, il Generale, che essendo un ex Colonnello di Artiglieria, non aveva nessuna fretta. Dopo la cerimonia gli Ufficiali ed i Sottufficiali gli furono presentati ad uno ad uno e siccome era bassottino, stringendo la mano a tutti, guardò quelli alti con un espressione di disgusto, aggiungendo qualche commento (tipo: -Esagerato!-) quando l'altezza, secondo lui, era eccessiva.

 

Uno dei tanti servizi previsti per i Sergenti AUC era: "Sottufficiale di ispezione" che si faceva, alla porta centrale, in collaborazione con l' Ufficiale di Picchetto. Tra le altre incombenze c'era l' alza-Bandiera e l' ammaina-Bandiera; la mattina si doveva portare il Tricolore, che di notte veniva conservato nell' ufficio del Sottufficiale di ispezione, al centro del piazzale dove c'era l'asta, bisognava fissarlo ai moschettoni legati alla corda e issarlo, dopo i tre squilli dell' Attenti che venivano diffusi dagli altoparlanti. La sera, invece, bisognava ammainarlo, con lo stesso tipo di cerimonia. Gli altri Sottufficiali portavano la Bandiera sotto braccio con fare indifferente. Quando fu il mio turno, preso in mano il Tricolore, provai una sensazione nuova: non riuscii a tenerlo sottobraccio, ma lo tenni sulle due mani, coi palmi rivolti verso l'alto. I miei colleghi mi presero un po' in giro; per poco tempo però, perché il Colonnello Comandante della Caserma "Piave" (uno spilungone di cui non ricordo il nome) decise che la Bandiera, da allora in poi, andava "sempre" portata come avevo fatto io. Il Colonnello era molto simpatico e imprevedibile; una volta mi chiese di tenergli un attimo l' elmetto; forse voleva vedere quale sarebbe stata la mia reazione, che non mancò quando mi resi conto che l'elmetto, leggerissimo, in realtà era di plastica. Ai miei colleghi raccontai quale emozione avessi provato nel maneggiare la Bandiera, che per me era qualcosa di "sacro"; spiegai anche che ero disposto a scherzare su tutto e su tutti (specialmente su me stesso) ma: per favore non toccatemi la Bandiera!

 

 

Il quattro novembre ci fu un temporale di grosse proporzioni e, nel pomeriggio, fu suonato l’allarme: c’era stata l’alluvione di Firenze e Grosseto ed il nostro reparto doveva prepararsi a partire per aiutare le popolazioni delle zone più colpite. Ad ognuno di noi, Sergenti AUC, fu assegnato il comando di un M-113 (un carro cingolato solitamente adibito per il trasporto di truppe) col pilota e sei artiglieri. Indossavamo la tuta mimetica, il cinturone con la pistola, ed eravamo in attesa dell’ordine di partenza; ma l’ordine non arrivò subito. Due giorni dopo, domenica 6-11-66, mi assegnarono di servizio alla porta centrale; era il servizio più stancante e per di più il servizio festivo l’avevo già fatto, mentre qualche altro collega ancora no. Mi presentai al Comandante di Batteria, il Tenente De Julio, e gli feci presente la cosa; mi rispose: -Faccia il servizio e poi si metta a rapporto!- Gli ricordai che ero impegnato nell’allarme, e lui mi rispose che mi avrebbe sostituito. Montai, contro voglia, di servizio e proprio quella notte partirono tutti verso la zona alluvionata. Il mio sostituto, il Sergente Giunta, un siciliano simpaticissimo, mentre si accingeva a partire continuava a canticchiarmi: -Dio come ti odio!- Ed io gli rispondevo, sempre cantando: -Non partir, non partir...- Quella notte praticamente non si dormì; tutte le colonne militari provenienti dal Lazio meridionale, dirette a Grosseto, si radunarono nel piazzale antistante la nostra caserma e, dopo le quattro, finalmente partirono. L’indomani rientrò Orazio Russo che aveva avuto un permesso di 36 ore ed era stato, anche lui, sostituito dal Sergente Rescigno. Eravamo rimasti in quattro gatti; quasi tutti gli Ufficiali, i Sottufficiali ed i militari di truppa erano partiti per le zone alluvionate. Ci presentammo dal Maggiore Secchi, responsabile pro-tempore del Gruppo, che ci disse di fare quello che volevamo e di non rompergli le scatole. Da allora io e Orazio Russo passammo le nostre giornate a giocare a biliardo nel Circolo Sottufficiali. Francisci, Galassi e Prisco tornarono, dopo parecchi giorni, dalle campagne di Grosseto, praticamente distrutti: come tutti gli altri, dimagriti e bruciati dal sole; nelle zone alluvionate avevano, più che altro, seppellito cadaveri di cavalli e puledri di razza, morti a causa dell'alluvione.

 

Il Maggiore Secchi era una persona speciale. Era stato promosso da poco e non sopportava che, ogni volta che entrava o usciva dalla  Caserma, venisse gridato "l'allarme" e il corpo di guardia si schierasse per attribuirgli gli "onori" dovutigli. Avrebbe voluto, se fosse stato possibile, far pubblicare un cartello con la scritta: non fate gli onori al Maggiore Secchi. Ma essendo la cosa impossibile, a volte, per evitare che la sentinella lo vedesse e desse l'allarme, attraversava la piazza antistante la Caserma Piave, nella parte alta, dove la sentinella non poteva vederlo e poi scendeva (la piazza è in pendenza) lungo il muro di cinta in modo tale che la sentinella, che stava nella garitta, lo potesse vedere solo all'ultimo momento e anche se dava l'allarme, ormai lui era già all'ingresso della Caserma e il corpo di guardia non faceva in tempo a rendergli gli onori.

 

All’inizio di dicembre ci chiesero se qualcuno di noi sapesse disegnare; mi feci avanti io e fui incaricato di predisporre dei grafici di vario tipo, necessari per il nuovo anno (1967). Fui esonerato da ogni altro servizio (anche perché erano arrivate le nostre "lampade": Germani, Vigorito ed Antonucci) e, ogni mattina, venivo accompagnato in auto fino agli uffici del Comando di Brigata (che era fuori della caserma). Me la presi comoda e ci misi quasi un mese per finire il lavoro; quando terminai era arrivato il momento di tornare a casa in attesa della nomina a Sottotenente e della nuova destinazione. Solo io e Franco Galassi fummo destinati nuovamente a Civitavecchia.

 

Ci assegnarono una camera a due letti, nella palazzina, vicino all'ingresso, dove c'era anche l'appartamento del Colonnello Comandante. La notte, quando si andava a dormire, io (che ero il più nottambulo) leggevo libri gialli o Tex Willer e Franco leggeva Topolino. Eravamo diventati come fratelli, ma io, pur essendo un po' più giovane, fungevo da fratello maggiore: infatti lui si coricava con la radiolina accesa, gli occhiali e il giornaletto tra le mani; dopo un po' si sentiva il suo russare ed io dovevo togliergli, delicatamente, gli occhiali, posarli, col giornaletto di Topolino, sul comodino e spegnere la radiolina e la sua abat-jour.

 

Qualche giorno dopo il nostro arrivo ci portarono alla Caserma Aurelia per il giuramento. Avevamo giurato, quattro mesi prima, anche da Sergenti AUC, davanti al Comandante del Gruppo. Ognuno di noi, singolarmente, aveva dovuto presentarsi, davanti alla scrivania dove stava seduto il Tenente Colonnello, ed estratta la pistola (Berretta calibro nove) l'aveva consegnata al Superiore dalla parte del calcio: per poterlo fare io mi ero allenato a farla girare come nei film western. Subito dopo si doveva leggere la formula del giuramento (senza parolacce, questa volta). Da Ufficiali la procedura era ancora più impegnativa: bisognava presentarsi davanti al Colonnello Comandante, sguainare la sciabola, salutare il  Superiore sollevandola in verticale e poi, dopo aver riportato l'elsa all'altezza del petto bisognava portarla in avanti, ruotando sul gomito e rischiando di sfregiare il Colonnello. Per evitare che questo accadesse mi tenni lontano dalla scrivania. e poi, usando la sola mano destra, feci volare la sciabola per acchiappare la lama ed offrire l'arma, dalla parte dell'elsa, al Colonnello Comandante. Anche in questo caso recitai la solita formula, che ormai avevo imparato a memoria, e ricevuta indietro la sciabola, ripetei il saluto e tornai, a passo di marcia, al mio posto.

 

Anche in quel periodo sfruttai le mie capacità di “imboscamento”. Ogni Sottotenente doveva  comandare,  per  dieci  giorni,  il  corpo  di  guardia  alla polveriera di Nera Montoro, in Umbria. Per i militari di truppa l'invio in polveriera era quasi una punizione, infatti, solitamente, venivano mandati i più indisciplinati. Io, sostituendo dei colleghi che preferivano stare a Civitavecchia, riuscii ad andarci altre due volte e in quelle occasioni gli artiglieri più in gamba fecero a gara per farsi mandare in Umbria insieme a me; evidentemente avevo guadagnato la loro fiducia. L’Umbria, specialmente in primavera, è bellissima, e in polveriera ero il più alto in grado e quindi ci stavo benissimo. Verso le cinque del pomeriggio la truppa montava di guardia lungo tutto il perimetro esterno della polveriera ed io, da quel momento ero libero di uscire, col l’ A.R. (la Jeep) l’autista, il Sergente e l’aiutante di sanità: Roberto Gnemmi (un amico di Novara che studiava al Politecnico di Milano). Siamo stati ad Amelia, Narni, Fornole, Terni, alle cascate delle Marmore, e in tanti altri bei posti. Per poter fare, senza intoppi, l'ispezione alle sentinelle, mi inventai una regola che, se i miei superiori l'avessero scoperta, mi avrebbe portato un mare di guai. Siccome per fare tutto il giro del perimetro esterno della polveriera ci volevano un paio d'ore e i collegamenti tra le garitte e le tre casermette, dove stavano i vari corpi di guardia, non sempre funzionavano, c'era il rischio di dover stare fermi per ore in attesa che arrivasse il Capo-posto che è l'unica persona che le sentinelle sono autorizzate a riconoscere; allora io imposi alle sentinelle di riconoscere anche il Comandante della Guardia (cioè il sottoscritto). Naturalmente raccomandai loro che questo sarebbe stato il nostro piccolo segreto. Quando mi presentavo nei pressi di un' altana, la sentinella mi domandava: -Altolà! Chi va la?- ed io rispondevo:- Comandante della Guardia!- Al che la sentinella mi diceva: - Comandante della Guardia riconosciuto! Passi!- Essendo un burocrate (avevo imparato a Scuola, in  due anni di servizio presso la Segreteria di un istituto Magistrale, i trucchi del mestiere) mi diedi da fare per far sostituire la cucina della polveriera che era in condizioni disastrose e per far riparare la recinzione esterna che era semidistrutta e non avrebbe retto ad un eventuale tentativo di intrusione (in quel periodo c'era il pericolo dei terroristi alto-atesini).  Scrissi una lettera al Comando, segnalando i problemi esistenti e utilizzando tutti i timbri disponibili (tra i quali "Il comandante della Guardia"). Il fatto di essere ritornato per altre due volte in polveriera mi consentì di seguire l' iter della pratica e di sollecitarla. La terza volta che fui destinato alla polveriera fui felice di constatare che le mie lettere avevano portato ad un risultato concreto: la cucina nuova e la recinzione furono inaugurate proprio al mio terzo comando. Quella volta avevo sostituito Paolo Vigorito; tutti e due eravamo scontenti a causa delle nostre destinazioni: lui doveva andare in polveriera ed io dovevo sfilare a Roma in occasione della festa del 2 giugno (un mazzo pazzesco: sveglia all'alba, tutto il giorno sotto il sole...). Sembravamo due leoni in gabbia; evidentemente pensavamo la stessa cosa ma nessuno dei due osava proporlo. Finalmente Paolo mi chiese: - Ma tu, vai volentieri alla sfilata? - ed io, prontamente: - Io no! E a te fa piacere di andare in polveriera? - Finì così che chiedemmo al Comandante del Gruppo se fosse possibile fare lo scambio, che ci fu concesso. Io passai dieci bellissimi giorni in Umbria e Paolo Vigorito sfilò a Roma sopra il carro semovente (ci teneva ad esibirsi davanti alla fidanzatina).

 

Ogni tanto si andava a fare esercitazione esterna con i carri semoventi (nuovissimi carri costruiti in America). Quando si effettuava lo “sbalzo” (presa di posizione rapida) bisognava essere pronti a sparare entro cinque minuti dall’arrivo. Non appena i carri si fermavano e prendevano posizione, da ogni carro un componente degli equipaggi correva verso l’ M 113 del Sottocomandante di batteria portando con se il cavo del telefono da campo che doveva essere collegato con gli altri tre e con quello del Tenente Picciòli. Siccome i cavi erano d’acciaio (simili a quelli dei freni delle biciclette, ma molto più grossi) era difficile riuscire a collegarli tutti assieme e si perdeva del tempo. Io riuscii a realizzare, con materiale di fortuna, recuperato nell’officina della caserma, una morsettiera composta da quattro coppie di morsetti e la fissai al tetto dell’ M 113, in modo tale che i quattro componenti degli equipaggi dei carri potessero collegare il proprio cavo telefonico velocemente e senza problemi. Era "l'uovo di Colombo” ma i cervelloni dell’Esercito non ci avevano ancora pensato. La morsettiera era collegata al telefono del Sottocomandante che avevo appeso alla parete interna del carro con un cestello fatto con piattina di ferro; realizzai, inoltre, un rudimentale centralino (con quattro interruttori) che consentiva di escludere o inserire i telefoni di ognuno dei carri. La cosa piacque molto, oltre che al Comandante della sesta Batteria, la mia, ai Comandanti della quarta (il Tenente De Julio) e della quinta (il Capitano Muneroni), e ai Sottocomandanti (il Sottotenente Salvàti  ed il Tenente Vinzani) che mi pregarono di costruire anche per loro quei semplici congegni; li realizzai e al Capitano Di Brigida, Comandante della sesta, venne la fissazione che avrei dovuto raffermarmi. Quando mi presentarono il foglio, dove mi si proponeva di restare in servizio, fui un po’ insolente e scrissi un “NO” enorme; la cosa fece indisporre il Capitano che si vendicò dandomi note di qualifica scadenti: avendomi sentito dare del “tu” al Sergente Giocondo Fantin, cosa che avveniva solo in privato, scrisse, come motivazione, che “davo troppa confidenza ai subalterni”.

 

Gli amici di Cagliari mi chiamano, per scherzo, "il vendicatore" perché difficilmente dimentico un torto subito. Non mi ero dimenticato del comportamento scorretto del maresciallo (di cui non ricordo il nome) responsabile del magazzino. Un giorno ci incontrammo, ci  guardammo  negli occhi, e lui, per evitarmi si infilò nel Circolo Sottufficiali. Lo seguii e lo "arronzai" per non avermi salutato, ricordandogli che il saluto non era destinato alla mia persona ma al grado che portavo. Cercò di vendicarsi: quando stavo per congedarmi mi arrivò un addebito per una "borsa per la posta". In occasione di una esercitazione esterna mi era stato ordinato di provvedere, quale responsabile, al caricamento del "carro Comando" e, fra le altre cose, c'era da ritirare una di quelle borse. Alla fine dell'esercitazione riconsegnai tutto ma lui non depennò la borsa e poi, molto furbescamente, me la addebitò. Mi rivolsi al Capitano Ferri, Comandante del Reparto Comando e gli chiesi se poteva fare chiarezza sulla circostanza. Andammo insieme al magazzino e il Capitano, che era molto in gamba, chiese l'inventario. Lo consultò e lesse che le borse per la posta, in carico, erano tre. Poi chiese dove si trovavano e constatò che ce ne erano quattro. Domandò al maresciallo come mai questa discordanza e per quale motivo ne veniva addebitata una quinta a me. Il maresciallo mostrò il registro dove non era stata depennata la borsa, ma il Capitano lo diffidò, per il futuro, dal commettere abusi di quel genere e fece annullare il mio addebito.

 

Il 17 di luglio del 1967, verso le 19, ci congedarono. La nave per Cagliari era già partita da qualche ora; quella per Olbia sarebbe partita alle 23. Convinsi Enrico Milesi, Sottotenente del 43° Corso di Civitavecchia, anche lui di Cagliari, a caricare sulla sua “cinquecento” tutti i miei bagagli, tra cui la fisarmonica, la chitarra e la tromba ed a partire per Olbia. Quando caricai tutta la mia roba sulla macchina, si ribellò perché non aveva sufficiente visuale dallo specchietto retrovisore. Si era fatto tardi ed i negozi a Civitavecchia erano gia chiusi, ma io lo convinsi a partire promettendogli che, arrivati in Sardegna, gli avrei comprato e montato uno specchietto retrovisore laterale, cosa che feci puntualmente. Fu così che finì la mia avventura in grigioverde. Di quei (lunghissimi) quindici mesi resta solo qualche ricordo ed il piacere di aver conosciuto e di essermi affezionato a tante persone simpatiche e in gamba. Alcuni, purtroppo, non ci sono più, ma il loro ricordo non mi abbandonerà mai.

 

Tra gli amici che oggi non ci sono più non posso dimenticare Enrico Milesi che i colleghi di Bracciano forse ricorderanno (era venuto da Civitavecchia, durante il Corso AUC e aveva partecipato ad un incontro di palla a volo o di palla-canestro) e col quale ho condiviso, insieme ad altri carissimi amici, i sei mesi da sottotenente; Luigi Palazzini, compagno di tantissimi scherzi, Gianfrancesco Laconi, che purtroppo morì poco dopo il congedo in un incidente stradale, il Tenente Giuseppe Chiaravalli, deceduto col grado di Maggiore, senza il cui intervento forse non avrei superato il Corso AUC e Galassi, che ho avuto vicino durante tutta la naja. Franco venne in Sardegna per trovarmi, subito dopo essersi laureato. Ci eravamo promessi di non perderci di vista e lui decise di venirmi a trovare senza avermi prima avvisato. Io ero in campeggio con mia moglie ed alcuni amici. Mi telefonò, ma io non c'ero. Andò in Costa Smeralda e al ritorno, ebbe un brutto incidente stradale. Lo ricoverarono all'ospedale marino di Cagliari; su sua richiesta mi rintracciarono, ma non mi consentirono di vederlo. Morì due giorni dopo di bronco-polmonite (in agosto). Il padre denunciò l'ospedale non so con quale esito. Ancora oggi non so darmi pace: se fossi stato reperibile forse Franco sarebbe ancora vivo!

 

Un' ultima considerazione: quando superai le prove teoriche per l'ammissione al corso AUC, l' Ufficiale che mi interrogò ci tenne a precisare che il ruolo dell' Ufficiale è quello di "educatore". In quindici mesi di naja ho avuto a che fare con un' infinità di Ufficiali. Molti avevano il ghigno sprezzante, caratteristico di coloro che sono, stupidamente, convinti di essere delle persone superiori per il solo fatto di indossare spalline più ricche; ma di "educatori" non ne ho conosciuto molti. Sicuramente lo erano il Sottotenente De Stefano, i Tenenti Chiaravalli e Ruocco, il Capitano Miceli Sopo ed  il Maggiore Mangiacapra, conosciuti a Bracciano, il Capitano Muneroni, il Capitano Ferri ed il Maggiore Secchi, conosciuti a Civitavecchia. Io, da parte mia, ho cercato di esserlo con i "miei" artiglieri, che  mi hanno voluto bene e questo mi ha gratificato non poco.